Ci troviamo a Syke, in Sassonia, dove l’associazione NauturKultur e. V., attraverso un progetto di scambio giovanile sviluppato nell’ambito del programma Erasmus+, invita 40 giovani provenienti da sette diversi paesi (Germania, Grecia, Italia, Olanda, Repubblica Ceca, Romania, Ungheria), a riflettere sul concetto di Unione Europea.
To be or not to be, that is the question. Domanda che, dopo Grexit, Brexit, e l’avanzata delle tendenze euroscettiche in tutti i paesi membri, diventa doveroso porsi e porre a chi nell’Unione Europea ci è nato.
La risposta è abbastanza ovvia: siam tutti europeisti con riserva. Europa significa Erasmus, vantaggi, opportunità, comodità della moneta unica, ma anche limiti imposti da terzi, egemonia dei paesi nordici che sembrano lasciare indietro e abbandonare i paesi della fascia mediterranea, i cosiddetti PIGS.
Ma non sono queste le problematiche che sembrano attanagliare le menti dei giovani partecipanti: la questione rifugiati diventa il main topic del progetto. La domanda che occorre porsi allora, prima di esserci o non esserci, è che cos’è l’Europa?
Potremmo definirla come un piccolo spazio che storicamente si rivolge altrove, verso l’esterno, e che, per questa sua vocazione, riesce a stare ovunque. Europa è in tutti i continenti, in tutti i paesi, nel bene e nel male. Parlando di noi europei, non possiamo fare a meno di parlare degli altri, del resto del mondo, tanto che riesce difficile trovare centro e confine.
Eppure, definire l’UE si traduce necessariamente in un tracciare linee che, se da un lato includono, dall’altro escludono chi rimane aldilà del segno.
E qui entra in scena la seconda parola più pronunciata del progetto: borders. L’ironia sullo slogan trumpiano “we will build a big wall” è facile e condivisa ma, tutto sommato, la presenza di confini sembra essere percepita come un male necessario.
Europa sembra agitarsi in una crisi d’identità. È quella dell’Erasmus, nomade, collaborativa e inclusiva o quella della moneta unica che necessita di statistiche, delimitazioni e parametri?
I giovani partecipanti allo scambio in questione sembrano propendere verso una visione più pratica di Unione, in cui le vaghe tendenze idealiste sono percepite come un piacevole intermezzo che non deve interferire con la realtà effettuale.
Chiudere le porte è un atto doloroso, ma legittimo e necessario. La sicurezza è prioritaria, non possiamo cedere alle astrazioni di un mondo senza confini.
Ma se di concretezza stiamo parlando, occorre allora citare l’esploratore norvegese Thor Heyerdahl che disse: «Di confini non ne ho mai visto uno. Ma ho sentito che esistono nella mente di alcune persone».
Articolo di Viviana Marchiò.
Foto credits: Marta Podniece, David Bohus e Karel Stros